Zen Notiziario – vol. 14, n. 1; 2007
Siamo sempre immersi in un tutto inscindibile: nessuno che viva, nasca, muoia da solo, che speri o disperi in solitudine. Seduti per terra siamo ricondotti ad uno, un gioco che ci ad-una.
Soli nell’eremo della montagna remota.
Quieti all’ombra di un pino antico,
all’aspra rupe ripida e fonda,
contento siedo.
(Shōdōka, Il canto dell’immediato satori, stanza 22)
Daishū ichinyō, shin jin ichinyō. Ichi, uno e nyō, tale quale: la differenza nell’indifferenza, l’indifferenza nella differenza. Daishū è un solo corpo, la Grande Assemblea, conformi, uniformi ma non senza differenza. La figura di un individuo, autonoma al punto da risultare recisa, de/ceduta, che deve esercitare la propria libertà, la propria responsabilità, non esiste. È una figura prodotta da un pensare esaurito, stanco, rivendicativo. Occorre liberarsi dell’idea di libertà, unilaterale espressione di una situazione di dissestato privilegio acquisita dal pensiero.
«L’homme è visiblement fait pour penser – scrive Pascal – C’est toute sa dignité et tout son mérite: et tout son devoir est de penser comme il faut». «Travaillons à bien penser: voilà le principe de la morale». Dōgen Zenji ci invita a “pensare-senza-pensare”, e “pensando senza pensare” ad essere oltre il pensiero – “hishiryō, arte essenziale dello zazen”. Quando sediamo concentrati e fermi nella postura, impariamo ad avere cura inconsciamente del respiro. Quando inspiriamo, inconsciamente rinunciamo all’espirazione. Quando espiriamo, inconsciamente rinunciamo all’inspirazione. Inconsciamente, automaticamente rinunciamo al pensiero che non può rinunciare a se stesso, quel pensiero che vuole, desidera senza potere.
Daishū ichinyo agire come un solo corpo, volere e potere, verso e oltre il satori. Daishū è Chiesa, Comunità. Assemblea, Sangha, termine impiegato in India prima dell’era buddhista che designava una corporazione di mercanti o artigiani o il consiglio di governo della famiglia di un re come pure una comunità religiosa. Inizialmente l’Assemblea era formata dai primi discepoli di Buddha Shakyamuni, coloro che avevano aperto l’occhio al Suo Dharma. E via via, da tutti quelli che si sono aggiunti.
Un’assemblea che si moltiplica, che costantemente s’apre ad un nuovo patto creaturale e generazionale. Tutti facciamo parte di questa famiglia eterna. Vimoksha è l’emancipazione, la liberazione ovvero la pratica. Dharma-kāya, il corpo della verità. Prajña, hannya, la conoscenza. I Tre Corpi sono un unico vero Corpo. Così i nove mondi nei quali anche gli esseri umani si trovano a nascere e morire vi sono inclusi. Ma quell’uomo al quale diamo tanta importanza, semplicemente non esiste, è semplicemente l’infima parte di un brevissimo istante del pensiero che proprio nel suo apparente annullarsi è un tutto. Di conseguenza non esiste nemmeno l’altruismo, se non nell’involontaria rinuncia a se stessi.
Jōdō, quel che si dice il Risveglio di Buddha, è il decimo mondo, il regno del Risveglio. Ogni esistenza in ogni sua forma costituisce la coscienza di Shakyamuni risvegliato, il Buddha. Siamo sempre di fronte ad un tutto inscindibile. Nessuno c’è che viva, nasca, muoia da solo; nessuno che speri o si disperi in solitudine. Quell’uomo semplicemente non c’è, muga. Daishū ichinyō programma d’esercizio: tutti insieme all’unisono, coralmente, condotti da un dinamismo d’insieme, senza cercare nessuna specialità, senza evidenziarsi, assoluti, unici.
Seduti per terra siamo ricondotti ad uno. Zen è proprio questo ad uno e za significa seduti, seggio, terra sulla quale stanno due uomini, due uomini su questa terra o meglio con questa terra. Io e gli altri, io e l’altro, io e me stesso. Due ad uno. Ad richiama il rito, l’andare verso: ritualmente siedo come se stessi giocando, familiarizzando in/volontariamente con la nuda terra, la polvere, l’elemento che ci costituisce.
Cosa sia il corpo noi non lo sappiamo, ma il corpo ci gioca ad uno. Zen è uno e quel che ci conduce, il gioco che ci ad/una ad uno.
Sediamo saldi come montagne, dice la scritta del Maestro Narita alla sinistra della porta del Dōjō di Fudenji. A destra un’altra scritta invita a strofinare una mattonella per farne uno specchio, masen sakyō. Questo è il nostro esercizio ordinario, quotidiano.
Nell’oblio di sé ogni cosa diventa se stessa. L’impronta del silenzio, la postura e la mente di Buddha si impadroniscono di questo corpo, di questa parola e di questa mente e grazie a loro riverberano ovunque nell’universo e questo riverbero ritorna a colui che siede – il Buddha che siede – per riverberare ancora e ancora, incontrando lo spirito di una tradizione di interi cicli cosmici, milioni e milioni di anni umani, una tradizione arcaica e nuova allo stesso tempo, uno schiocco di dita.
Tanta è l’attesa, inaudita attesa, riverbero cosmico che da un lontano antico ci raggiunge e da noi riparte remotissimo futuro. Impariamo, amici, a sedere; offriamo, amici, zazen; in silenzio, amici, nel silenzioso eloquio seduti adunati, due a due all’infinito, per sempre sia il nostro zazen come incenso che brucia e che diffonde il suo profumo nelle dieci regioni. Siamo predicatori, dolci, affettuosi d’un solo verso, d’una sola strofa.
Chiara la luna sul fiume,
soffia il vento tra i pini.
Lunga, fresca e dolce notte.
Ch’altro resta da fare?
(Shōdōka. Il canto dell’immediato satori, stanza 26)
È hishiryō, coscienza infinita dello zazen senza scopo, sublime perché inutile per l’inutile. Le passioni soffiano tra i pini. Non è più necessario intervenire. E noi, in questo paesaggio, siamo dei gran signori.