Zenite – Vol. 25, n. 3-4; estate-autunno 2018
Ieri ho ritrovato una foto di mia zia che mi sorrideva da chissà dove. Quel sorriso negli ultimi anni non accadeva più, ma lì di nuovo era affiorato, come quando da bambina le andavo davanti e me ne stavo come si sta in certi dipinti di santi. Lei mi guardava con tale dolcezza che mi pioveva sulle spalle tutta quella luce, tutta la gioia d’essere necessaria a qualcuno...
Così ho ricordato che negli anni in cui studiavo, tutte le mattine prendevamo insieme il treno, ci sedevamo di fronte, io leggevo, lei cuciva su un quadratino dei nastri e sempre qualcuno si avvicinava a chiedere cosa fossero. Allora, con pazienza, si toglieva gli occhiali e spiegava che la tecnica si chiamava Rinascimento, che era molto antica e se quello incuriosito non se ne andava, aggiungeva come bisognasse fare prima il disegno, imbastirlo su carta, cucire i nastri e dopo a legarli, minuscole reti, che andavano tessute con l’ago. Era questa la parte più difficile, concludeva.
Seguiva un immancabile: “Per farne cosa?”. Anche qui si ripeteva una precisa sequenza. Mi guardava con complicità (perché interlocutori diversi recitavano tutti lo stesso dialogo) poi rispondeva: “Una coperta”, “Ma quanto vi ci vorrà?” era la replica sbalordita e prevista, perciò prima che mia zia aprisse bocca, già conoscevo le parole, infatti sussurrava: “Una vita” perché quella fatica era per me, a me dedicata e le piaceva immaginare che ci avrei dormito sotto come sua protezione.
Allora l’interlocutore si inchinava, perché mia zia era molto bella con quella luce tenera intorno al viso e perché a opere così lunghe si deve rispetto. Lo racconto con nostalgia, ora che tutto mi pare abbrutito e suona assurda quella cura che d’ogni oggetto con fatica, con pazienza, con mille minuscole astuzie, faceva arte. Alla fine, certo, questi oggetti avevano molta bellezza, ma non si tratta solo di questo. Se un sarto cuciva una giacca, adattava la consistenza dei fili, delle cuciture, delle fodere interne e allora anche la mente cambiava, perché s’abituava alla sottigliezza, all’idea che niente è semplice e da quella maestria nasceva qualcosa che non era più solo abito, ma sforzo, tentativi, esperienza, ed era questo che alla fine si indossava.
Io me la immagino come un’investitura, umana certo, ma da cui comunque ti sentivi avvolto e doveva per forza commuoverti, toglierti un po’ di superbie, effetto che gli oggetti in serie non producono. Mia zia aveva ragione a dire "una vita", perché alla fine tanto ci vuole per ogni vera opera e lei aveva subito scartato le scorciatoie.
Per molti anni quella coperta non ho avuto il coraggio di usarla, tanto mi pareva sacra e anche questo è stato un errore. Era composta da un miliardo di fili, un miliardo di ore e la fatica degli occhi. S’erano stremati sul lavoro e, prima di morire, erano diventati ciechi, la loro luce più stanca. Come si fa a ricambiare questo?
La scena del treno, delle domande e delle risposte, degli sguardi scambiati, credevo sarebbe durata per sempre e forse ancora gira da qualche parte di un tempo che non mi è dato conoscere.
Chi ti fa un regalo così, ti ha benedetto per sempre, perché di questo si tratta. Ma alla fine cosa davvero volevo scrivere? Il dolore d’aver ripagato così male tutto questo amore?
Le catene con cui ci tengono i sogni o la debolezza per cui rinunciamo a essere liberi?
Se il tempo dall’inizio è tutto intero e se persino la morte abbiamo già vissuto, allora eterni sono anche i nostri incontri e prima o poi ci si ritrova, non soltanto nello spazio...