Entrare fuori

Zenite – Vol. 21, n. 3; autunno 2014

Artistica evasione, entrare fuori s’ispira ad una magia napoletana, ‘esce ‘a dint’o, insieme all’inside-out del rovesciamento d’una visione pervertita e alla doppia solitudine da cui nascono l’amicizia e la compagnia della flamme seule, Je suis seul di Tristan Tzara. Entrare, finire all’inizio. Entri dentro al dentro e vai fuori... Fuori dal fuori vai nell’intimità più lontana e segreta. Entri, ma stai fuori e, fuori, stai dentro. Quando attingi davvero alla Sacra Scrittura vai fuori dal fuori, cioè al cuore dell’uomo, jiki shi nin shin, di quella speciale trasmissione fuori dalle scritture, kyōge betsuden. Tra rito e libertà non trascuri il Dharma né la sua Regola scritta, ma instancabilmente ti perfezioni imperfetto. Nel vincolo, bandhu, sta il caso della nostra libertà, in una certa costrizione la nostra disciplina.

“Nous ne devons pas regarder par-delà la nature - scriveva Mondrian - nous devons plutôt voir à travers elle. Alors l’extériorité devient pour nous ce qu’elle est effectivement: le miroir de la vérité”. Non guardiamo naturalmente oltre, ma attraverso: un vedere che domanda impegno, fatica, vigilanza, semplicità, scandalo e un inevitabile peccato. Stiamo, come cacciatori, davanti a un grande elefante con tutta la nostra anima. Possiamo ucciderlo e può ucciderci. Pochi istanti che diventano eterni, dove nessuno vuole o può veramente uccidere nessuno. Manchiamo sempre di qualcosa: dobbiamo dire, ma non possiamo mai dire fino in fondo... e allora il peccato inevitabile ci soccorre e ci viene incontro a salvare il cacciatore e l’elefante.

Estetica del rito, arte essenziale dello zazen, propriamente porta del Dharma di pace e felicità. Dhyana, Ch’an, Zen, arte di salvezza, quella che salva la bottiglia e l’oca che vi è cresciuta dentro, piano piano... “La creazione artistica parte da un luogo senza mente”, scriveva Hisamatsu Shin’ichi. Questa assenza incarna il cuore stesso d’ogni forma d’arte nei suoi molteplici aspetti, incorpora quella risonanza universale, cattolica che solo sa suggerire l’arte e la dignità del frammento.

Fermi, immobili, nel silenzio esercitiamo le mani a vedere. Un occhio nel palmo d’ogni mano e in ogni singola parte del corpo. Mani che vedono e che cercano, nel buio, un guanciale. Immobili, ma tanto fermi da impensierire e spaventare anche la morte. Non un pensiero che possiede, che misura, shiryō, ma pensiero smisurato che s’affaccia, si sporge e non sfugge alle astuzie della materia che pensa.

L’Arte dell’andare oltre ogni oltre, là dove non vi ha inizio e fine, l’entrare fuori, pensare smisuratamente, hishiryō, esce d’incanto da ogni prigione. Arte figurativa, astratta e concettuale, sfinite, perdono i sensi... Astratta la figura, figurata l’astrazione. Chi pinge una figura, se non può esser lei, non la può porre1. Arte di flessibile durezza, l’azione avviene simultaneamente: respiro, ritmo di corpo, mente e cuore; cuore dal battito lento, veloce, regolare, irregolare... E avverte supplice e costretto quel palpito, quell’amor ch’è palpito dell’universo intero.

Non c’è arte che non domandi impostazione, impostazione del corpo, fondamentali, esigente stilizzazione che ordina a pensare. Beniamino Gigli esortava a cantare con le ginocchia. Ed Eugenio Montale ricordava che: “Esiste un problema d’impostazione anche fuori dal canto in ogni opera umana”. Costretti a un terminale preciso e concreto e, al tempo, misterioso, altero, croce e delizia al cor, s’accende irresistibile un fuoco che genera e consuma, dove una storia e una narrazione accendono quel precetto che ordina, quell’ordinazione che comanda. Gli ordinandi piegano le ginocchia, abbassano il capo, giungono le mani. Riuniscono e dissolvono in un istante di vita i tremila regni... con l’incenso ognuno mette a bruciare una parte di se stesso... impostazione ad oltranza, libertà sorgiva che senza nulla annientare tutto dissolve, entrando fuori nell’ineffabile mistero del Nirvana.


1 Dante, canzone XVI, in Ananda Coomaraswamy, Il Grande Brivido, Adelphi, 1987.