Articolo comparso su Zen, Annuario dell’Associazione Italiana Zen Sōtō Shōbōzan Fudenji – 1994
Finalmente ho potuto arrivare da mio figlio, il mio discepolo, ed ora ho la possibilità di tenere un Teishō per voi. Vorrei parlare della vita del mio Maestro, Sawaki Kōdō Rōshi, ed è mia speranza che possiate ascoltare in modo da trarne un insegnamento.
Sawaki Kōdō Rōshi ha vissuto 85 anni, tra il 1880 e il 1965. È morto nel piccolo Tempio di Antaiji, a Kyoto. Era chiamato Yadonashi Kōdō, che significa “senza casa, senza un proprio focolare”, ed anche Idōsōrin, cioè “monaco errante”. Idōshiki vuol dire “non fermarsi mai nello stesso posto”, ovvero “esistere senza possedere uno spazio personale in cui fermarsi”, per cui oggi si sta qui, domani si è altrove, dopodomani ancora altrove. Questa era la vita, il modo di vivere di Kōdō “senza casa”. Sōrin indica il fatto di vivere insieme in comunità con i monaci in un monastero. Quindi per vivere non poteva mai fermarsi nello stesso posto. È sempre stato itinerante, e questa sua abitudine si è ulteriormente amplificata a causa della guerra. Alla fine è rimasto fino alla morte ad Antaiji, dove i suoi discepoli hanno costituito una comunità monastica.
Personalmente l’ho sentito ripetere spesso: “Non ho una casa, non ho una moglie, non ho un Tempio, non ho bisogno di onori, non ho bisogno di saggezza, non ho nemmeno bisogno del Satori”.
Non avere una casa era proprio la vita di Kōdō “senza casa”.
Non aveva un tempio, eppure normalmente la vita di un monaco è quella di avere un tempio proprio; lui non ne possedeva. Osservando l’atteggiamento dei suoi confratelli che litigavano per ottenere la direzione di un tempio alla morte dell’Abate, aveva sempre evitato di prender parte a quei conflitti, ed era svanito in lui ogni desiderio di assumere quell’incarico.
Esprimeva spesso con forza la sua decisione di non possedere mai un tempio. Allo stesso modo non possedeva denaro. Ma portava sempre con sé, nella borsa, una moneta d’oro da dieci yen per compensare il disturbo di chi avrebbe provveduto ai suoi funerali o alle sue cure fino a quel momento.
Diceva: “Non ho una moglie”, e una volta mi ha detto, casualmente: “Io non ho avuto occasione di prender moglie...”. Forse perché era monaco ed era piuttosto deciso a non sposarsi. Quando gli ho parlato del mio matrimonio, mi ha detto: “Sposati pure, se questo non disturba il tuo Zazen”. Non saprei dire quale fosse la sua posizione riguardo al celibato, comunque mi ha detto che avrei potuto senz’altro sposarmi, a patto che mia moglie non mi distogliesse dalla pratica. In effetti sono sposato da 52 anni ed ho un figlio.
Diceva anche: “Non ho bisogno di gloria, di onori, né di conoscenza, di un sapere intellettuale”.
Quando aveva 77 anni, fu organizzata in suo onore una celebrazione speciale in Giappone: benché non avesse studiato, ricevette un premio (l’Ordine della Cultura giapponese, n.d.r.), un’alta onorificenza nazionale (Bunka Kunshō).
“Ma io – diceva – non ho bisogno di questo genere di cose. Ricevere un’onorificenza è come farsi mettere un collare con la medaglietta di riconoscimento; non ho nessun bisogno di un collare, come un cane. Questa decorazione, questo premio è una catena al collo”.
Per l’occasione gli organizzatori avevano spedito degli inviti senza avvertirlo. Quando venne a saperlo, scrisse personalmente a ciascuno annullando l’invito e rimproverò agli organizzatori di occuparsi di cose inutili. Si arrabbiò molto con loro, e anche con me.
Ha passato la vita a dare, in ogni occasione; era invece a disagio quando riceveva un dono. “Non ho bisogno di catene al collo”, ed è così che ha trascorso la sua vita, libero.
Diceva ancora: “Non ho bisogno di Satori”. Anche nello Zuimonki troviamo espressioni analoghe. La Buona Legge del Buddha è “senza cercare di ottenere nulla”. Questa Buona Legge, che è senza un fine, e così si è ampiamente diffusa, non è risolvere dei kōan: è praticare senza voler ottenere nulla, senza cercare di afferrare un Satori. Sawaki Rōshi diceva: “Non ho bisogno del Satori per promuovere il Buddhismo; non ho una casa, non ho una moglie, non ho bisogno di soldi né di un tempio, non ho bisogno di onori, non ho bisogno del sapere”. Questo essere eccezionale, di una generazione che si esprimeva in questo modo, era veramente formidabile, penso.
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I primi anni di vita del mio Maestro furono funestati da grandi sofferenze. Aveva 5 anni quando morì sua madre, 8 anni quando morì suo padre, e la sua casa, la sua famiglia fu dispersa. Finì per rifugiarsi da una zia, ma alla morte del marito di questa donna dovette andarsene di nuovo. Aveva fratelli e sorelle, e tutti vennero adottati da diversi parenti e familiari. Il suo nome di nascita non era Kōdō, ma Saikichi; ricevette in seguito il cognome Sawaki perché la famiglia Sawaki l’aveva adottato. Sawaki, il capofamiglia, si occupava della fabbricazione di lampade e possedeva una sala da gioco, che era anche una casa di appuntamenti; vendeva tabacco ed alcool ed era un losco figuro. Sua moglie, prima di arrivare da quest’uomo, era prostituta e aveva spesso cambiato compagno. Picchiava di continuo Saikichi, colpendolo con la scopa, Ancora ragazzo, Saikichi era stato indurito dagli avvenimenti e non aveva paura di nulla, poteva cavarsela in ogni situazione. Le impressioni di questo periodo della sua vita l’hanno segnato profondamente fino all’età adulta, gliel’ho sentito dire personalmente.
Sawaki abitava nel villaggio di Tsu; davanti all’abitazione c’era il tempio di Senshuji, mentre dietro la casa c’era il bordello, e continuamente Saikichi assisteva a risse e litigi. Una sera, fra due bande rivali che provenivano da due bordelli diversi, ci fu una vera e propria battaglia con morti e feriti. Aveva 10 anni. Passando tra i corpi sanguinanti, si mise a correre nella notte fino al villaggio vicino per dare l’allarme.
Dunque non ha avuto una vita normale da bambino: la sua prima giovinezza è trascorsa tra molte vicende dolorose, in mezzo a un’umanità disperata. In tutta la sua vita ha frequentato solo per quattro anni la scuola elementare. Diceva spesso: “Io non ho studiato affatto, a parte i primi anni di scuola”.
Ma le difficoltà, le disgrazie, i dispiaceri non l’hanno mai prostrato, in tutta la sua giovinezza non è mai stato vinto, abbattuto. Anche nelle condizioni in cui viveva ha trovato una luce: un pittore povero che si chiamava Morita Senchu. Spesso l’ho sentito dire: “Non sono stato vinto dalla vita, da quella vita terribile, grazie a Senchu”.
Quel pittore, un prete poverissimo, voleva insegnare qualcosa a quel ragazzo prima che partisse per la vita. In tutti i Paesi del mondo, se non ha successo, un pittore vive poveramente. Qualcuno ha successo, ma gli altri hanno una vita dura, difficile. Per quanto povero, aveva un cuore grandioso; lo trattava con amorevole rispetto e gli offriva dei dolci dicendogli: “Caro piccolo Saikichi”. Gli prestava dei libri, gli insegnava a scrivere a caratteri cinesi qualche testo dei Sutra, aveva a cuore la sua educazione. Veramente Sawaki Rōshi non ha mai dimenticato per tutta la vita questa immensa gentilezza.
A casa mia ho un dipinto del figlio di Senchu, di nome Senhō, che raffigura Jiun Sonja. L’ho ricevuto da Sawaki Rōshi. Dunque Saikichi ha ricevuto da Senhō un’effigie di Jiun Sonja: a mia volta l’ho ricevuta da Sawaki Rōshi alla sua morte ed ora è nel mio tempio, a casa mia.
Ricordava che quando era piccolo era accaduto un grave episodio: un uomo sui cinquant’anni era andato al bordello per intrattenersi con una ragazza, nella stanza al primo piano, ed è morto d’infarto all’improvviso, accasciandosi sul corpo della ragazza. Ben presto evidentemente tutti i vicini si sono accalcati là a guardare lo spettacolo; con tutto quel rumore anche lui è salito con gli altri e ha visto il cadavere disteso, con la testa sul cuscino. La moglie dell’uomo, ignara dei trascorsi del marito, piangeva disperatamente dicendo: “È terribile che esistano dei posti come questo!”, e la sua disperazione ha penetrato il cuore, lo spirito di Saikichi. Attraverso quegli avvenimenti comprese che non si può mai nascondere, dissimulare nulla.
Per tutta la vita, come si è potuto constatare, ha voluto sempre rimanere “allo scoperto”, senza dissimulare nulla.
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Vorrei ora parlare della mia relazione, dell’incontro con il mio Maestro.
Come dicevamo, è cresciuto con questa matrigna, una donna che non era la sua vera madre, isolato; anch’io da piccolo ho vissuto a lungo solo con mia madre, e ho potuto apprezzare, sentire le difficoltà e l’ambiente che si creano in queste situazioni.
Grazie alla gentilezza di Morita Sencho, il mio Maestro Sawaki Rōshi, ancora in tenera età, ha potuto gustare, amare l’insegnamento del Buddha e si è chiaramente determinato a diventare monaco. Da lui ha imparato a vivere e a maturare in modo giusto, sano, santo, pur trovandosi in un ambiente degradato. E in effetti il mio Maestro è diventato un autentico shukke, “colui che abbandona la casa”, lasciando per sempre la casa in cui viveva.
A 19 anni andò a Eiheiji, portando con sé il valore di un litro di riso e 12 centesimi, che probabilmente aveva ricevuto chiedendo un po’ di elemosina. Arrivò al tempio a piedi, dormendo nei campi, e penso che questa sia veramente la vita di uno shukke, la vita di un monaco. Ma a Eiheiji non poté ricevere una formazione monastica, diventare novizio, perché non aveva le qualifiche necessarie.
“Fate di me un monaco, uno shukke”, chiese, ma gli fu risposto: “Questo non è un tempio per dei vagabondi, è un tempio per dei monaci, quindi vattene, tornatene a casa”. E lui: “D’accordo, ma anche se non posso diventare monaco, lasciatemi morire qui”.
Così gli assegnarono un lavoro di pulizia e aiuto in cucina. E poté scoprire la maniera di fare Zazen guardando gli altri mentre praticavano.
Un giorno di hosan, mentre i monaci erano assenti e il tempio era tutto tranquillo, si sedette in Zazen da solo nel suo piccolo alloggio, a partire da quello che aveva potuto osservare guardando gli altri: in quel momento una brava donna, anche lei addetta ai lavori più umili, entra nella sua camera, vede Sawaki in Zazen e dice: “Ah, Saikichi è diventato un Buddha!”. Ancora più stupito di lei, Sawaki Rōshi esclama: “Ah, così con questa postura si è Buddha!”. In quel momento in fondo al suo cuore si aprì la visione di Zazen ed egli comprese profondamente che Zazen faceva vedere il Buddha, è la postura del Buddha vivente. In tutte le conferenze, i teishō, diceva: “Anch’io, con Zazen, posso esprimere il Buddha. Ve ne prego, fate Zazen con una postura perfetta!”.
Non era ancora il monaco Kōdō. Alla ricerca di un tempio in cui potesse ricevere l’Ordinazione, andò a Sōshinji e divenne discepolo dell’Abate. Aveva 22 anni. Entrando in questo tempio ricevette il nome di Kōdō.
In quel periodo poté incontrare Fueoka Ryoun della regione di Tanda, un villaggio di montagna, e creò un profondo legame con questo Maestro, che in effetti ebbe una notevole influenza sulla sua formazione. Fueoka Ryoun lo vedeva fare Zazen continuamente e gli diceva: “Tu fai sempre Zazen!”. Poi gli fece notare che, per quanto Zazen sia severo per sé, una vita orientata solo verso Zazen è cieca, occorre considerare altri aspetti della pratica. Aveva, come si dice, “mano d’acciaio in guanto di velluto”. A quell’epoca poté incontrare anche Nishiari Zenji, un grande specialista dello Shōbōgenzō. Aveva un aspetto duro e severo, un viso largo segnato dal vaiolo, malattia oggi scomparsa, e assomigliava a un personaggio grottesco che appare spesso nelle decorazioni dei tetti. Nishiari, benché fosse un’autorità a Eiheiji, temuto da tutti, con Fueoka diventava soffice e delicato come un gatto.
Un episodio divertente riguardo a Nishiari Zenji ritornava sovente nei racconti del mio Maestro. Sawaki Rōshi era l’anja di Nishiari, dunque si occupava sia del Maestro che del jisha (attendente del Maestro, n.d.r.). Dicevamo che il suo volto era tutto butterato, spaventoso; lo chiamavano “il volto del diavolo” – nelle case si trovano spesso delle maschere di questo tipo, tipicamente teatrali. Aveva dunque questo volto terribile, ma era un uomo di grandissima forza interiore. Un giorno una persona andò a fargli visita e non appena fu introdotto presso di lui, forse per la paura, la timidezza, o l’ansia, cominciò a parlare con la voce rotta, la gola secca: “Per favore, mi metta a mio agio – disse aprendo la porta – Mi insegni qualcosa, mi dica una parola sullo Zen”. Nishiari Zenji, che stava leggendo, con una voce tremenda gli chiese: “Ma chi ti credi di essere? Per chi dovrei farlo?”. Quell’uomo, con la voce rotta per la paura e l’emozione: “È per me…”, disse. “Se è per te soltanto, non ha alcuna importanza che tu sia a tuo agio o no!”. A quelle parole il visitatore cominciò a ridere in modo un po’ stupido “Hi hi hi hi hi…”, e Sawaki Rōshi, che era nella stanza a fianco, sentendolo si piegava in due dalle risate.
Se ne ricordò per tutta la vita, ce ne parlava spesso.
Non so come possiate considerare questo episodio, forse non vi dice molto, ma occorre percepire, sentire che il Buddhismo per se stessi è una faccenda completamente individuale e che comunque nella nostra vita non possiamo mai essere completamente soddisfatti, occorre agire con ciò che si ha a disposizione. Diciamo continuamente: “devo far questo, devo far quello…” ma la Buona legge del Buddha non è affatto un mondo in cui possiamo trovare una soddisfazione personale. Nishiari Zenji lo insegnava appunto a quel visitatore. Sempre in fondo a noi stessi occorre mantenere una certa equanimità.
Nel 1904, a 24 anni, viene richiamato alle armi. C’era la guerra russo-giapponese. Mentre era sul fronte, una pallottola gli attraversò la mascella, da destra a sinistra, la punta della lingua fu tranciata e con questa ferita venne congedato. Nel corso di una battaglia in cui quasi tutti i compagni di pattuglia, e anche il sergente, erano stati uccisi, prese il comando del gruppo dei superstiti. Sawaki Rōshi aveva una voce tonante, era capace di recitare i sutra e di praticare gli shomyō con una forte voce. Un ufficiale superiore lo udì e lo vide dirigere correttamente i soldati con quella voce possente: volle sapere chi fosse quell’uomo impegnato a riorganizzare la pattuglia e in seguito, dopo la battaglia, gli fece conferire una medaglia al valore. Per tutta la vita, grazie alla medaglia e a quella ferita, poté ricevere una pensione dal governo.
Utilizzò tutto il denaro della pensione per gli altri, mai per se stesso. Ha sempre dato sempre tutto ciò che aveva, l’ha usato per diffondere la Buona Legge del Buddha. Era determinato a non possedere mai denaro e quando ne riceveva comprava dei libri per i suoi teishō.
Ritornò dal servizio militare a 29 anni. Nessuno sapeva che cosa avesse fatto durante la guerra e i Sawaki, la famiglia adottiva, pensavano che fosse caduto in battaglia; speculando su questa possibilità avevano ottenuto una grossa somma dallo Stato e quando è ritornato se la sono tenuta, non hanno restituito nulla.
Al suo rientro andò a Horyuji, un celebre tempio giapponese; l’Abate era Saikijōin, studioso dello Yogacara. Diceva: “In verità, non bisogna soltanto studiare lo Zen, ma tutte le forme di Buddhismo”, e così fece Sawaki Roshi, studiando presso di lui. A causa della sua ferita aveva dei problemi di pronuncia perché, come si è detto, aveva il filetto della lingua tranciato: così, per superare quella difficoltà, andava davanti a una cascata e gridando si esercitava a pronunciare le parole esattamente. Come lui stesso diceva, penso veramente che con la forza della volontà sia riuscito a forgiare se stesso per poter parlare normalmente, nonostante quella menomazione.
In seguito rimase per 5 anni totalmente isolato come un eremita, un asceta, in un tempio vuoto a Nara, per studiare. La sua immensa cultura buddhista fu dovuta in gran parte ai suoi anni di studio in quel tempio vuoto. Si nutriva soltanto con una tazza di riso integrale e una prugna salata. In questo modo passò cinque anni a studiare. Ancora oggi si possono vedere i libri che Sawaki Rōshi annotava con una matita rossa. Questi fogli di carta, i libri dell’epoca, sono notevolmente logorati dall’uso. Penso sinceramente che per lui sia stato durissimo studiare. Apprese le forme antiche del Buddhismo, come lo Yogacara. Diceva che la sua vita era una vita per forgiare se stesso, e in effetti l’ha sempre dimostrato.
Nel 1916, a 36 anni, fu invitato da Oka Sōtan a Shuzenji – dove è stato anche il Maestro Taiten – e divenne Educatore dei discepoli in quel tempio. Ricevette una forte impressione da Oka Sōtan. Quando se ne separò, andò a vivere in solitudine a Mannichizan, un eremo di montagna presso Kumamoto. Era la residenza secondaria di un ufficiale dell’esercito, che Sawaki Rōshi poteva utilizzare per i suoi studi. Questo personaggio gli inviava normalmente del riso, ma a volte se ne dimenticava, e il Maestro continuava a studiare con pazienza, senza mangiare.
Nel 1935 – io ci sono entrato nel 1936 – il rettore dell’Università di Komazawa lo invitò a insegnare. Era un uomo molto colto. Per quanto fosse un’università buddhista, fino a quel momento non vi si praticava Zazen, e tre studenti si erano ribellati, avevano fatto sciopero proprio per questo motivo. Allora Omori Zenkai, il rettore, si recò da Sawaki Rōshi, che si trovava in una località molto lontana, e gli propose: “Venite a insegnare Zazen”. Per andare a insegnare in quell’università occorrevano diplomi e qualifiche di vario tipo. Sawaki Rōshi rispose: “Io non possiedo niente, non ho una casa, non ho un tempio, non ho moglie, non ho fatto degli studi regolari, non ho diplomi”. Ma Omori Zenkai gli disse: “Lasciate che mi occupi io di tutto, affidatemi i vostri affari e venite”. Il rettore ritornò da lui per tre volte almeno, e finalmente Sawaki Rōshi finì per cedere.
Nello stesso periodo c’era al tempio di Sōjiji – l’altra casa madre (della scuola Zen Sōtō, con Eiheiji, n.d.r.) – lo Zenji Ito Dōkai, che disse: “Se Kōdō Sawaki va a insegnare a Komazawa, che venga anche qui da me a Sôjiji!”. Così divenne professore all’Università di Komazawa e poi a Sōjiji: in quel periodo andò a insegnare anche in altre località vicino a Tokyo.
Aveva previsto un programma che gli consentiva di arrivare ogni anno lo stesso giorno alla stessa ora nel luogo in cui doveva insegnare. Sempre con questa disposizione di “monastero ambulante” o monaco errante, si spostava in maniera di essere il giorno e l’ora previsti là dove era atteso.
Akitaken è lontano (la prefettura di Narita Shūyū Rōshi, n.d.r.), nel nord del Giappone, e ci sono tornato nel 1948, dopo aver passato tre anni prigioniero in Russia – in tutto ho passato dieci anni in uniforme; evidentemente la mia relazione con il Maestro in quel periodo si era interrotta, ma dal mio ritorno sono rimasto vicino a lui fino alla sua morte. Insegnava il Buddhismo, lo Shōbōgenzō non solo a noi, ma a tutto il vicinato.
Fino a tre anni prima di morire teneva le sue lezioni dal 22 al 29 luglio, tutti gli anni, era regolato come un orologio. Soltanto una volta è arrivato da me un giorno prima: “Ehi, c’è qualcuno qui?”. Lo vedo arrivare con il suo bagaglio sulla schiena e gli dico “Vi aspettavo per domani…”. “Ah, mi sono sbagliato!”. Veniva da solo, a piedi. A volte c’era una monaca che lo accompagnava, ma generalmente era solo. “Adesso sono arrivato qui da te e non vuoi che mi fermi? Sei mio discepolo o no? Allora lasciami riposare!”.
Questo monaco errante, questo monastero ambulante ha passato tutta la vita ad essere ricevuto dappertutto e a insegnare, a parlare.
È morto a 85 anni (86 secondo l’uso giapponese). Nel piccolo villaggio del tempio di Antaiji guardava le montagne intorno e diceva: “Le montagne mi chiamano: Kōdōsan, Kōdōsan, vieni, vieni presto!”. Ha passato tutta la vita ad essere intimamente legato alla natura, e veramente senza denaro, senza casa, senza tempio. Il suo esempio ci ha fortemente impressionato.
Ho avuto il grande onore di essere suo discepolo. Grazie a lui ho potuto trasmettere il suo insegnamento a Taiten e a Kengan, rapportarmi a voi con un profondo legame karmico e avere in tal modo occasione di insegnarvi.
Il mio Maestro diceva sempre: i giapponesi non capiscono il Buddhismo, bisognerebbe senz’altro andare all’estero e insegnare agli stranieri.
Le sue parole sono state profetiche. Occorre assolutamente vedere in modo più vasto del proprio piccolo ego. Tutto è KU vuoto, come è detto nell’Hannya Shingyo. Non vuol dire che non c’è niente: non è una vacuità in cui non c’è niente, è una vacuità in cui c’è tutto. Fondamentalmente in realtà non c’è nulla, e in quel momento, quando tutto è incluso nello stesso punto, ci si accorge che non c’è niente. Quando un fiore sboccia, non significa che quel fiore prende esistenza, ma che tutto in quel momento prende esistenza, con il fiore.