In memoria di Kobe Bryant (1978-2020)

a cura di Filippo e Alessandro Shuichi Antonicelli.

In memoria di Kobe Bryant (1978-2020)

Ricordo quando, da bambino, ho ricevuto il mio primo vero pallone da basket. Mi piaceva tenerlo tra le mani. Ero così innamorato di quel pallone che non volevo usarlo, per non sciupare la grana del cuoio e i solchi perfetti. Non volevo rovinare la sensazione. Mi piacevano anche i suoni che faceva. Il tap, tap, tap del rimbalzo sul parquet. La limpidezza, la precisione di quel rumore. La sua previdibilità. Il suono della vita e della luce. Ecco alcune delle cose che mi piacevano del pallone, dello sport. Erano al cuore e alla radice del mio mestiere e della mia tecnica. Sono i motivi per cui ho affrontato tutto quello che ho affrontato, ho faticato quanto ho faticato, ho scavato così a fondo. Tutto derivava da quello speciale tap, tap, tap di cui mi ero innamorato da bambino.

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Dò valore a ogni nota dell’inno nazionale. In quei momenti preziosi ascolto ogni suono e assorbo l’energia dell’arena. Colgo l’occasione per acquisire consapevolezza di cosa succede, dei compagni intorno a me, del canestro davanti a me, del canestro alle mie spalle, di tutti gli altri suoni e oggetti. È un raccoglimento profondo che dà luogo a una comprensione totale del palazzo. In sostanza cerco di percepire l’energia dell’ambiente e le permetto di scorrermi dentro. Questo mi dà la spinta per ottenere le prestazioni migliori possibili. Faccio così fin da quand’ero bambino: mi viene naturale. Non ci ho mai riflettuto più di tanto. Quando però è arrivato Phil Jackson ho iniziato a capire l’importanza del mio processo di meditazione personalizzato.Da allora gli ho dato sempre più importanza.

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Il dolore della sconfitta brucia quanto la gioia della vittoria. Ma per me sono esattamente la stessa cosa. Arrivo in palestra alla stessa ora all’indomani di cinquanta partite perse o di un campionato vinto. Non cambia niente per me.

(da The Mamba Mentality, il mio basket, Rizzoli 2018)