Assoluto e basta

Zen Notiziario – Vol. 18, n. 3; estate 2011

Più che essere veri è preferibile fingersi tali; più che mirare ad un’impresa che è condannata al bene, è preferibile sperare di fallire in una che è destinata al male. A forza di accettare gli altri, puoi arrivare a rifiutare te stesso. E anche un povero, fingendosi un principe, può arrivare ad incontrarlo.

Fudenji architettura padano-nipponica? Difficile a dirsi, se non si sa apprezzare quella naturalezza, tipica di queste parti, in cui si conciliano inspiegabilmente brutalità e gentilezza d’animo, e soprattutto quando non si è familiari con favole, travestimenti e finzioni. Racconto per i giovani di ogni età, Il principe e il povero di M. Twain narra del piccolo Tom Canty che sogna e finge la felice e viziata esistenza di un principino. Dai racconti di padre Andrea e dalle sue fantasie nasce e cresce in lui, sino a dominare tutti i suoi pensieri, il desiderio di vedere con i suoi occhi mortali un principe in carne ed ossa. I suoi modi divennero stranamente cerimoniosi e cominciò a recitare la parte di un principe. 

Il piccolo Edoardo Tudor, da parte sua, asseconda il coraggio del piccolo suddito che ha avuto l’ardire di incontrarlo faccia a faccia e gioca a scambiare con lui i propri vestiti. Ma quest’ermetico intrigo del principe-povero getta un’inaspettata luce sulle enigmatiche metafore nel Samadhi dello specchio prezioso di Tōzan Ryokai (806 869), dove invece si parla di servo e signore, di apparente e reale, di figlio e padre, oste e ospite, reale ed assoluto. 

Nell’intrigo il signore guarda ai servi, i servi all’unico signore, signore e servo scambiano le vesti, il servo vede il servo dei servi che è nel signore, infine il signore succede nel signore. Tu che guardi alla molteplicità, alle singolarità, alle differenze, sei il signore; quando guardi all’unicità, alla differenza sei il servo. Non puoi restare né sulla molteplicità né sulla singolarità, né sull’identità né sulla differenza. Questa è la nostra pratica, dove accettiamo la realtà a piene mani, abbracciando singolarità e unicità, differenza e identità, luce e buio. 

Gli altri li incontri alla luce, l’Altro lo vedi al buio, senza luce, dice il Sandōkai di Sekito Kisen (700-790). Uscire e rientrare in sé, attendere, incontrare è arte sottile, misteriosa. Il momento giusto non va disatteso: a seconda del tempo la felicità diventa infelicità, l’infelicità felicità. Accade ogni giorno di dover scegliere, appare quotidianamente ad ogni istante di trovarsi davanti un bivio, ma ogni alternativa è altrettanto buona quando si accetta la scelta di un altro: di fronte a un bivio non resta che imboccarlo. Questa è la nostra pratica, quello a cui siamo tenuti e di cui sarebbe inutile parlare… Non interpretazioni meta-politiche, semi-religiose o catechetiche quindi, ma naturalezza assoluta: quella che è di casa da queste parti. Sei tu, siamo noi, uno per uno: assoluti. Tu sei assoluto. E basta!

Uno dopo l’altro i suoi sette figli salirono sull’autocarro e Alcide Cervi, senza manifestare in alcun modo il suo turbamento: “Io vado con i miei ragazzi”. Accortosi subito che gli abiti di Anatolij erano strappati e rosi dal fuoco e vedendolo rabbrividire, gli passò il suo tabarro. Forse in quel momento ricordò di quella volta in cui lui e i suoi figli avevano messo a testa in giù nell’acqua quello sventurato che aveva cercato di sabotare l’irrigazione dei loro campi, salvo poi offrirgli i vestiti per cambiarsi… Naturalezza e basta, immaginazione armata quella di Ettore Cervi che la sera prima di essere fucilato scrisse ai suoi: “sempre coraggio, e tutto sarà niente”.